Spingendosi verso Reggio Emilia, l’itinerario sulle tracce del genio e della sregolatezza non può che portare ai luoghi cari ad Antonio Ligabue, il pittore naïf di origine svizzera che trascorse parte della propria vicenda artistica nelle terre intorno a Gualtieri.
Sebbene i paesaggi di sfondo di molti suoi quadri ritraggano scenari alpini, la vita dell’artista è legatissima al grande argine del Po e, in particolare, a quella che oggi è nota come l’area naturalistica “Isola degli Internati”, ai margini del centro abitato del comune reggiano.
Lasciandosi alle spalle la casa-museo di Via Giardino 27, nella cui stalla Antonio Ligabue soggiornò e lavorò per diversi anni – dormendo in piedi come i cavalli, terrorizzato dalla paura di morire nel sonno – si arriva a Palazzo Bentivoglio, in Piazza Bentivoglio. Il 2019 vede la riapertura del Museo Antonio Ligabue, completamente rinnovato sia per quel che riguarda il patrimonio di opere, sia per ciò che concerne gli spazi che ospitano l’esposizione.
Immergendosi nella Bassa, in Golena, quando la nebbia avvolge la terra e i pioppi, i tre relitti riaffiorati e riscoperti nel 2006 dopo una grande secca sembrano navigare fluttuanti in un impalpabile oceano in direzione del luogo in cui un tempo sorgeva il casotto vicino alla teleferica del Caldarèn, termine che indicava i contenitori atti a trasportare l’argilla nello stabilimento con la fornace per i laterizi.
Proprio in questi spazi selvaggi dove Ligabue si procurava il materiale per le sue sculture – oggi interessati da una formidabile rinaturazione spontanea di specie vegetali tipiche come salici bianchi e sambuco – il pittore venne notato da Marino Mazzacurati, che lo portò con sé nella villa presso la cinquecentesca Palazzina Torello-Malaspina, dove soggiornava temporaneamente con i genitori.
Nelle vicinanze della residenza, l’artista poteva dormire nelle serre e nei fienili dei mezzadri del conte, che diventarono la culla del suo inconfondibile stile pittorico.